Corruzione tra privati, come indagare

Non di rado nel mondo del lavoro si registrano casi di corruzione; si tratta di un’eventualità rispetto alla quale le possibili vittime devono cercare di tutelarsi fin dove e possibile per mezzo degli strumenti messi a disposizione dalle norme in vigore.
Corruzione tra privati, cosa vuol dire
In generale, per corruzione tra privati si intende una qualsiasi pratica corruttiva (offerta di denaro o altri beni in cambio di servizi, concessioni, favori e privilegi non dovuti) messa in atto tra due o più soggetti privati.
Dal punto di vista normativo, il reato definito in maniera piuttosto esauriente dall’articolo 2635 del Codice Civile; il dispositivo stabilisce che tale reato si concretizza quando “gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, di società o enti privati che, anche per interposta persona, sollecitano o ricevono, per sé o per altri, denaro o altra utilità non dovuti, o ne accettano la promessa, per compiere o per omettere un atto in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedeltà”.Si parla di corruzione tra privati anche per “chi, anche per interposta persona, offre, promette o dà denaro o altra utilità non dovuti”.
Il Codice disciplina anche un altro reato, strettamente connesso a quello appena descritto. Si tratta della “istigazione alla corruzione tra privati”, definita dall’articolo 2635 bis. Come si legge nel dispositivo “chiunque offre o promette denaro o altra utilità non dovuti agli amministratori, ai direttori generali, ai dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, ai sindaci e ai liquidatori, di società o enti privati, nonché a chi svolge in essi un’attività lavorativa con l’esercizio di funzioni direttive, affinché compia od ometta un atto in violazione degli obblighi inerenti al proprio ufficio o degli obblighi di fedeltà, soggiace, qualora l’offerta o la promessa non sia accettata, alla pena stabilita nel primo comma dell’articolo 2635, ridotta di un terzo”.
Cosa comporta
Oltre a definire tutti i casi in cui si configura il reato di corruzione tra privati, il Codice Civile individua specifiche pene, anche nel caso in cui si concretizzi un semplice tentativo o una qualsiasi forma di istigazione alla corruzione.
L’articolo 2635 del Codice Civile stabilisce che i rei di corruzione tra privati siano puniti con la detenzione da uno a tre anni a meno che il fatto non costituisca un reato più grave. Le pene previste dal dispositivosono raddoppiate “se si tratta di società con titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altri Stati dell’Unione europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante”. Prima dell’entrata in vigore della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (che ha abrogato il comma 5 dell’articolo in questione), il reato di corruzione tra privati era perseguibile solo in presenza della querela presentata da parte della persona offesa “salvo che dal fatto derivi una distorsione della concorrenza nella acquisizione di beni o servizi”.
In aggiunta, il Codice prevede anche la confisca del bene per mezzo del quale si è configurata la corruzione vera e propria; nello specifico, il comma 6 stabilisce che “la misura della confisca per valore equivalente non può essere inferiore al valore delle utilità date, promesse o offerte”.
Per quanto riguarda l’istigazione alla corruzione tra privati, l’articolo 2635 bis stabilisce che la pena detentiva per chi commette questo reato è pari ad un terzo di quella prevista per la corruzione (da uno a tre anni). Essa si applica “agli amministratori, ai direttori generali, ai dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, ai sindaci e ai liquidatori, di società o enti privati, nonchè a chi svolge in essi attività lavorativa con l’esercizio di funzioni direttive”. Anche in questo caso, la necessità di procedere in presenza della querela da parte della persona offesa è stata abrogata dalla legge n.3 del 9 gennaio 2019.
La disciplina prevede anche pene accessorie sia per la corruzione che per l’istigazione, ovvero “l’interdizione temporanea dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese” (articolo 2635 ter del C.c.) che, in base alle disposizioni dell’articolo 32 bis del Codice Penale, “priva il condannato della capacità di esercitare, durante l’interdizione, l’ufficio di amministratore, sindaco, liquidatore, direttore generale e dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili societari”.
Per entrambi i reati sono anche previste le circostanze attenuanti, se i fatti hanno provocato un’offesa di particolare tenuità, secondo quanto disposto dall’articolo 2640 del Codice Civile.
Si può indagare su dipendenti sospetti?
Come spiega Salvatore Piccinni – Managing Director Head of Southern Europe di Inside Intelligence & Security Investigations, il reato di corruzione tra privati può consumarsi anche tra dipendenti, a danno dell’azienda presso la quale sono impiegati. In questo caso, il datore di lavoro è la parte danneggiata; se il dipendente corrotto agisse anche in favore dell’azienda, in quel caso sarebbe quest’ultima – nella sua interezza – a rispondere del reato di corruzione (che, tra l’altro, non sarebbe più “tra privati”).
I casi di corruzione interna possono essere tanti e motivati a vario titolo, dalla semplice avidità alla concorrenza sleale. In ogni caso, il datore ha diritto a tutelarsi. Le indagini sui dipendenti sospetti sono possibili: lo Statuto dei Lavoratori consente infatti di svolgere controlli a carico dei lavoratori (anche ai fini dell’assunzione) a patto di non coinvolgere aree di indagine specifiche, come ad esempio la fede religiosa e l’orientamento politico. In virtù di quanto sopra, un’azienda può dare mandato, tramite un legale rappresentate o il titolare in prima persona, ad un’agenzia di investigazione privata di svolgere delle indagini di controllo.
Queste ultime prevedono una fase preliminare durante la quale gli agenti procedono alla raccolta delle informazioni utili alle successive procedure di indagine. In particolare, vengono acquisiti i dati anagrafi e documenti quali curriculum e contratto di lavoro del target delle investigazioni, al fine di delineare un accurato profilo personale e professionale.
Lo step successivo è rappresentato dalla supervisione, attiva o passiva (ossia pedinamento o appostamento) che consente agli agenti di collocare in un determinato contesto di tempo e luogo il dipendente sottoposto ad indagine. Per mezzo di materiale fotografico e video, gli investigatori sono in grado di documentare il comportamento del target, evidenziando eventuali atteggiamenti sospetti. Nel caso si tratti di indagini specifiche su una possibile concorrenza sleale da parte dei soci, gli agenti possono integrare le procedure sopra descritte con controlli più approfonditi, come ad esempio verificare le presenza di fonti alternative di reddito (specie se poco trasparenti) oppure effettuare uno screening delle reti informatiche aziendali al fine di individuare tracce di attività sospette riconducibili ai device in dotazione (anche) al dipendente o al socio sospettato di corruzione. Al termine dell’iter investigativo, gli agenti redigono una relazione finale in cui illustrano il lavoro svolto ed i risultati con esso ottenuti.