Si può indagare sulla vita privata di un dipendente?

11 Feb , 2020 Indagini Aziendali

Si può indagare sulla vita privata di un dipendente?

Quello tra datore di lavoro e dipendente è un rapporto basato su reciproci diritti e doveri. Le leggi in vigore tutelano le prerogative di entrambi e definiscono gli obblighi spettanti sia al prestatore che al datore di lavoro. In generale, si tratta di un rapporto fiduciario che, se minato da circostanze di vario genere, può determinare persino la rescissione del contratto in essere tra le parti; può succedere, a volte, che il datore di lavoro voglia tutelare i propri interessi, disponendo verifiche ed accertamenti a carico del dipendente o di un aspirante lavoratore che si è candidato per una posizione aperta: vediamo di seguito se e quando è possibile indagare sui dipendenti.

Si può indagare sui dipendenti?

Il principale riferimento normativo in materia di indagini sui dipendenti è costituito dall’articolo 8 della Legge n. 300 del 20 maggio 1970, più semplicemente noto come Statuto dei Lavoratori. Il dispositivo in questione stabilisce quanto segue: “È fatto divieto al datore di lavoro, ai fini dell’assunzione, come nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore”.

In altre parole, come spiega Salvatore Piccinni – Managing Director Head of Southern Europe di Inside Intelligence & Security Investigations, il datore di lavoro può disporre delle indagini a carico di un proprio dipendente (o di un possibile lavoratore da assumere), a patto che le procedure investigative siano limitate agli ambiti pertinenti alla sfera professionale e non siano inerenti ad alcuni aspetti della sfera privata (non a caso l’articolo si chiama “divieto di indagine sulle opinioni”).

Le disposizioni dell’articolo 8 riprendono quanto statuito dall’articolo 1 dello Statuto, che assicura la libertà di opinione ai dipendenti. Nello specifico, si legge, i lavoratori “hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme della presente legge”.

Questo tipo di verifiche di controllo possono essere commissionate ad un’agenzia di investigazioni privata specializzata in indagini di questo genere; in tal modo, il mandante avrà la certezza non solo di rivolgersi a personale qualificato ma anche di richiedere un servizio svolto con piena coscienza e rispetto dei limiti imposti dalle normative in vigore. In linea di massima i cosiddetti “controlli difensivi” sono ritenuti legittimi, purché disposti in presenza di un qualsivoglia elemento fattuale tale da giustificare questa procedura altrimenti, secondo quanto sentenziato dal Tribunale di Milano l’11 agosto 2006, viola l’articolo 8 dello Statuto dei Lavoratori. I riscontri ottenuti in fase di indagine vengono raccolti in una relazione tecnica che il mandante della procedura investigativa può utilizzare nella maniera che ritiene più opportuna. Il documento può assumere valore probatorio all’interno di un eventuale processo giudiziario avverso alla mancata assunzione.

Valutazioni su pendenze penali

Sulla base di quanto sottolineato finora, emerge come le indagini sulla vita privata dei dipendenti siano possibili, purché non riguardino gli orientamenti politici o religiosi. Ne consegue che il datore di lavoro può chieder conto anche di eventuali pendenze penali del dipendente o del candidato. Va però sottolineato come la giurisprudenza in merito sia piuttosto variegata e che alcuni casi di specie hanno contribuito a definire un certo orientamento. La questione, in sintesi, riguarda precedenti penali e carichi pendenti.

A proposito di quest’ultima, val bene citare la sentenza 19012 emessa dalla Corte di Cassazione, Sezione Lavoro civile, emessa a luglio del 2018. Il caso riguardava una donna che “non era stata assunta in servizio per essere risultato dalla certificazione della competente Procura un carico pendente”; il Tribunale si è espresso a favore della dipendente non assunta “ritenendo illegittimo il rifiuto di procedere all’assunzione”. Nelle motivazioni della sentenza si legge che “la richiesta del certificato penale integra un limite rispetto alla previsione di cui all’articolo 8 dello Statuto dei Lavoratori[…] che si giustifica con la rilevanza ai fini della valutazionedell’attitudine professionale del lavoratore della conoscenza di date informazioni relative all’esistenza di condanne penali passate in giudicato”. Tale limite, spiega la sentenza, non può essere dilatato fino a ricomprendere anche i processi penali in corso, alla luce del principio costituzionale della presunta innocenza. In pratica, i giudici hanno stabilito che un carico pendente non può essere interpretato come precedente penale e, di conseguenza, non può rappresentare un valido motivo a giustificare un mancato licenziamento.

Un’altra sentenza, la n. 22173 emessa a settembre 2018 dalla Corte di Cassazione, ha fatto chiarezza in merito alla mancata assunzione in presenza di una vera e propria condanna per reato penale. Nel caso di specie, una donna aveva presentato ricorso per via di un rifiuto di assunzione da parte delle Poste Italiane; la Corte si è pronunciata con una sentenza che ha confermato quanto aveva già decretato la Corte di Appello poiché l’aspirante dipendente, compilando un modulo di autocertificazione “che per la genericità del termine adoperato (certificato) era riferibile anche a quello di carichi pendenti”. Da questo accertamento, la donna risultava essere stata condannata per violazione di sigilli, ai sensi dell’articolo 349 del Codice Penale. Tale circostanza, secondo i giudici, rende legittimo la mancata assunzione.

Indagini sui Social Network

Una nuova frontiera delle indagini sui dipendenti è rappresentata dalle verifiche della presenza del soggetto sui social network (Facebook, Twitter, Instagram e simili). La questione si presenta piuttosto controversa, anche perché ha un’origine molto recente e può essere inquadrata da diversi punti di vista.

Da un lato, infatti, si può prendere in considerazione l’utilizzo dei social network sul luogo di lavoro; essa può rappresentare una violazione dell’articolo 2104 del Codice Civile, inerente alla diligenza del prestatore di lavoro che “deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta” e ha l’obbligo di “osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende”.

Dall’altro, invece, si può indagare sul contenuto delle pubblicazioni (post, foto, video e altro) ma, in tal caso, c’è il rischio di violare il divieto di indagine sulle opinioni disposto dallo Statuto dei lavoratori. Non meno rilevanti sarebbero i problemi derivanti da una possibile violazione della privacy. Anche in tal caso, la giurisprudenza è quantomeno variegata; una sentenza della Cassazione del 2014, ad esempio, ha ritenuto legittimo il licenziamento di un dipendente che aveva installato sul computer aziendale un programma di file sharing ed uno per l’accesso alla casella di posta elettronica personale nonostante il divieto, presente nel regolamento aziendale, di accesso alla rete internet (nel caso di specie – sentenza n. 17859 della Cassazione Civile del 11/08/2014 – il dipendente aveva anche scaricato materiale pornografico tramite il sopra citato software di file sharing).


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