Cosa si intende per mancato obbligo nei casi di infedeltà aziendale?

4 Feb , 2020 Indagini Aziendali

Cosa si intende per mancato obbligo nei casi di infedeltà aziendale?

Il rapporto tra datore di lavoro e dipendente si basa su principi e valori ben definiti, non solo dal comune buon senso ma anche dalle norme di legge. Per entrambi, infatti, sono previsti diritti e doveri il cui mancato rispetto può avere ripercussioni, anche gravi, sul rapporto lavorativo e sulla prosecuzione dello stesso. Il perseguimento dei reciproci interessi, infatti, non deve risultare lesivo per la controparte; in altre parole, godere dei propri diritti non può rappresentare un abuso o un mancato rispetto dei reciproci doveri.

Cos’è l’infedeltà aziendale

Come appena accennato, il dipendente ha obblighi ben precisi nei confronti del proprio datore di lavoro. Uno di questi è quello della fedeltà. Il principale riferimento normativo, a tal proposito, è rappresentato dall’articolo 2105 del Codice Civile; il dispositivo stabilisce che “il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio”.Come spiega Salvatore Piccinni – Managing Director Head of Southern Europe di Inside Intelligence & Security Investigations, l’infedeltà aziendale si configura nel momento in cui il dipendente alimenta un regime di concorrenza sleale, svolgendo in prima persona un’attività concorrenziale oppure divulgando in maniera impropria informazioni riservate e dati sensibili che, una volta resi pubblici, determinano un danno (economico e di immagine) per l’azienda.

In sintesi, un dipendente infedele è principalmente un dipendente tacciabile di concorrenza sleale. Quest’ultimo si configura a sua volta sia in presenza della violazione del patto di non concorrenza (disciplinato dall’articolo 2125 del Codice Civile) sia quando il dipendente compie uno degli atti di concorrenza sleale individuati dall’articolo 2598 del Codice Civile. Nel primo caso, all’ex dipendente è fatto divieto di svolgere un’attività concorrenziale entro un determinato lasso di tempo (non oltre cinque anni); il vincolo è valido solo se formalizzato in forma scritta e recante precisi limiti di spazio e oggetto. Nel secondo, invece, il reato si configura con l’utilizzo di marchi e simboli di proprietà altrui o in grado di generare confusione con marchi già esistenti. Parimenti, costituisce un atto di concorrenza sleale la diffusione di informazioni riservate o denigratorie nei confronti di un competitor per determinarne il discredito.

L’infedeltà aziendale può avere non solo risvolti civili ma anche penali. Il Codice Penale, infatti, prevede una sanzione pecuniaria e una pena detentiva per “chiunque, essendo venuto abusivamente a cognizione del contenuto, che debba rimanere segreto, di altrui atti o documenti, pubblici o privati, non costituenti corrispondenza, lo rivela, senza giusta causa, ovvero l’impiega a proprio o altrui profitto” (articolo 621). Anche la rivelazione di un segreto professionale senza giusta causa (articolo 622 del Codice Penale) costituisce reato per il quale le pene risultano aggravate se il fatto “è commesso da amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, sindaci o liquidatori o se è commesso da chi svolge la revisione contabile della società”. Il Codice annovera anche un altro reato, quello commesso da chi rivela – senza alcun motivo valido – un segreto scientifico o industriale.

Quando si parla di mancato obbligo

Sulla base di quanto sottolineato finora, è evidente come al datore di lavoro sia fatto obbligo di essere fedele alla propria azienda e riservato, ossia rispettare il segreto aziendale (o industriale). Quando un lavoratore subordinato – così come un dirigente o un socio –non rispetta le prescrizioni civili e penali connaturate alla propria mansione, si può parlare di mancato obbligo. In altre parole, di mancato rispetto di una parte dei propri doveri che non derivano direttamente dagli accordi contrattuali stipulati con il datore di lavoro.

Non a caso, il mancato obbligo di fedeltà e riservatezza può essere punito anche in assenza di esplicita menzione nel regolamento interno dell’azienda. A stabilirlo è la sentenza n. 17366 emessa dalla Corte di Cassazione il primo settembre del 2015; secondo quanto sottolineato dai giudici, gli obblighi del dipendente (previsti dagli articoli 2104 e 2105 del Codice Civile) “sorreggono la stessa esistenza del rapporto” e, per tanto, “ai fini della legittimità del provvedimento irrogativo di un licenziamento disciplinare, non è necessario indicarle nel codice disciplinare, così come è sufficiente la previa contestazione dei fatti che implichino la loro violazione, anche in difetto di un’esplicita specificazione delle norme violate”. Al netto delle peculiarità del caso di specie, che devono essere analizzate di volta in volta, il mancato obbligo viene considerato generalmente lesivo del rapporto fiduciario che deve sussistere tra il datore di lavoro e il dipendente subordinato; ciò, in presenza di violazioni gravi o reiterate, può legittimare il licenziamento.

Come indagare in questi casi

Il datore di lavoro può commissionare ad un soggetto terzo delle indagini a carico dei propri dipendenti, nel rispetto di quanto stabilito a tal proposito dallo Statuto dei Lavoratori. Le verifiche, anche ai fini dell’assunzione, non possono riguardare la sfera personale, ed in particolare il credo religioso, l’orientamento politico o l’appartenenza sindacale.Questo tipo di servizio viene generalmente offerto, assieme alla necessaria consulenza legale, da un’agenzia di investigazioni privata specializzata nell’effettuare indagini sui soci e i dipendenti infedeli.

Il mandato di indagine può essere conferito sia dal titolare dell’azienda sia da un legale rappresentante. L’iter investigativo prevede una fase iniziale nella quale gli agenti acquisiscono tutta la documentazione relativa al dipendente (contratto d’assunzione, curriculum e – se disponibili – lettere di referenze); in tal modo, è possibile tracciare un profilo di natura personale e professionale sul quale incentrare le indagini.

La fase successiva è meno analitica e più attiva, in quanto prevede la supervisione del soggetto, una procedura che può essere sia attiva che passiva. Nel primo caso si parla di pedinamento, nel secondo di appostamento. Grazie a questa tecnica, gli investigatori possono acquisire materiale di tipo fotografico e video così da documentare i comportamenti dell’indagato, collocandolo in un preciso contesto di coordinate spazio-temporali. Contestualmente, questa fase di indagine consente anche di scoprire se il dipendente sottoposto ad indagine abbia contatti o rapporti di qualche genere con figure collegate ad aziende o soggetti concorrenti; nel caso emergano riscontri di questo tipo, gli agenti procedono ad ulteriori verifiche, come ad esempio la presenza di una seconda fonte di introito che potrebbe essere riconducibile ad un’attività illecita.

Una volta implementate le procedure d’indagine previste, gli agenti stilano una relazione tecnica finale di carattere riassuntivo all’interno della quale viene illustrato il lavoro svolto e i risultati con esso ottenuti. Il documento viene consegnato al mandante che può utilizzarlo come prova a supporto di un provvedimento disciplinare a carico del dipendente; qualora tale provvedimento si concretizzi in un’interruzione del rapporto di lavoro, il committente delle indagini può presentare anche la relazione investigativa come prova nell’ambito di un procedimento giudiziario.


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