Patto di non concorrenza, definizione e cosa fare in caso di mancato rispetto

2 Apr , 2019 Indagini Aziendali

Patto di non concorrenza, definizione e cosa fare in caso di mancato rispetto

In ambito economico e lavorativo, la concorrenza rappresenta un elemento capace spesso di generare controversie tra due soggetti differenti che operano nella stessa area di mercato. In generale, gli atteggiamenti concorrenziali leciti possono rappresentare uno stimolo per lo sviluppo di un settore specifico; di contro, quando la concorrenza viene messa in atto tramite atti di slealtà o senza rispettare i limiti imposti dalla legge, rappresenta un fattore di contrasto tra soggetti concorrenti.

Naturalmente, il problema della concorrenza (in termini di correttezza e limitazioni della stessa) si pone solo nel momento in cui due aziende o, più in generale, due soggetti economici sono coinvolti in attività produttive o commerciali che afferiscono allo stesso ambito, si collocano nel medesimo segmento di mercato oppure intendono rivolgersi alla stessa tipologia di clientela.

Cosa si intende per patto di non concorrenza

Il ‘patto di non concorrenza’ è un accordo, da stipulare in forma scritta, che può essere inserito nel contratto che lega datore di lavoro e dipendente. È una clausola contrattuale ammessa dalla legge italiana e disciplinata dal Codice Civile. Gli estremi del patto possono variare a seconda delle parti coinvolte; in ogni caso, l’accordo va redatto per iscritto e non può – in nessuna circostanza – superare il limite di validità imposto dalle leggi vigenti. Vediamo di seguito quali sono i principali riferimenti normativi.

Cosa dice il codice civile

Secondo quanto si legge nell’articolo 2125 del Codice Civile, il patto di non concorrenza è “il patto con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto”. Tale accordo non è valido se non è stato prodotto in forma scritta oppure se non viene riconosciuto un corrispettivo in favore del dipendente; in aggiunta il vincolo “contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo”.

“La durata del vincolo” – si legge al comma 2 del medesimo dispositivo –  “non può essere superiore a cinque anni, se si tratta di dirigenti, e a tre anni negli altri casi. Se è pattuita una durata maggiore, essa si riduce nella misura suindicata”. La legge, quindi, tende a distinguere il patto di non concorrenza per dipendenti rispetto a quello valido per i dirigenti.

L’articolo 2596 del Codice Civile, che disciplina i “limiti contrattuali della concorrenza”, individua in maniera specifica quelli che sono gli estremi del patto di non concorrenza. Il dispositivo ribadisce, in entrambi i commi, che la durata del patto di non concorrenza non può superare i cinque anni; tale termine è insindacabile, anche in presenza di accordi per cui la durata del vincolo di non concorrenza dovrebbe essere superiore.

Durata e territorio: cosa si intende

La durata ed il territorio del patto di non concorrenza sono i due parametri che definiscono i termini del vincolo. Sono previsti dal già citato articolo 2125 del Codice Civile: per essere validi non devono essere troppo generici né contraddire quanto disposto dalla normativa.

Per quanto concerne la durata, il limite – come già detto – è di tre anni per i dipendenti e cinque per i dirigenti, senza eccezione alcuna e senza possibilità di stipulare accordi che prevedano vincoli di durata superiore. Il concetto di ‘territorio’, invece, può risultare più complesso da definire. Il patto di non concorrenza deve prevedere anche un’indicazione geografica ben precisa poiché un termine troppo generico costituirebbe un ostacolo al rientro nel mondo dell’impiego per il lavoratore.

Esiste un terzo elemento che caratterizza il patto di non concorrenza: il corrispettivo. Il Codice Civile (articolo 2125) si limita a disporre un generico “corrispettivo a favore del prestatore di lavoro” senza specificare secondo quali parametri esso debba essere quantificato. A tal proposito, però, non mancano i casi di giurisprudenza, come ad esempio la sentenza n. 7835 emessa il 4 aprile 2006 dalla Cassazione Civile, per la quale “la valutazione della congruità del corrispettivo pattuito costituiscono oggetto di apprezzamento riservato al giudice del merito”. In un’altra sentenza della Cassazione (n. 9491 del 13 giugno 2003), il corrispettivo viene definito come “di natura altamente retributiva” per il quale “è impossibile attribuire al datore di lavoro il potere unilaterale di incidere sulla durata temporale del vincolo o di caducare l’attribuzione patrimoniale pattuita”. L’ampia giurisprudenza in materia annovera anche la sentenza n. 4891/1998 secondo la quale il datore di lavoro deve evitare sia “compensi simbolici” sia “compensi manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore”.

Come può difendersi il datore di lavoro

La violazione del patto di non concorrenza può configurare il reato di concorrenza sleale. Uno degli scenari più frequenti prevede un lavoratore dipendente che lascia l’azienda presso cui era impiegato per dare il via ad un’attività propria che si inserisca nello stesso settore. La violazione, però, si concretizza solo nel momento in cui uno dei contraenti del patto non rispetta gli accordi contenuti all’interno dello stesso (durata e territorio). È quanto emerge anche dalla sentenza 988/2004 della Corte di Cassazione: “Esiste violazione del patto di non concorrenza disciplinato dall’art. 2596 c.c. quando l’obbligato intraprenda un’attività economica nell’ambito dello stesso mercato in cui opera l’imprenditore”.

Di contro, si può parlare di concorrenza sleale anche quando i termini del patto di non concorrenza siano stati rispettati. Gli ‘atti di concorrenza sleale’ sono individuati dal Codice Civile tramite l’articolo 2598.

Il datore di lavoro ha il diritto di tutelare la propria attività ed i propri interessi anche accertandosi che altri soggetti non stiano attuando pratiche concorrenziali che non rispettano le normative vigenti. Per fare ciò può scegliere di dare mandato ad un’agenzia di investigazioni private specializzata in indagini sul lavoro. Gli investigatori avranno poi il compito di raccogliere le prove necessarie a confermare l’esistenza di una violazione del patto di non concorrenza; a tal proposito vengono impiegate varie tecniche, che spaziano dalla supervisione, sia statica (appostamento) che dinamica (pedinamento) all’acquisizione di materiale fotografico ed audiovisivo che possa ricostruire le attività del soggetto indagato.

In aggiunta, qualora sorga il sospetto che da parte del soggetto indagato siano messi in essere atti di concorrenza sleale, gli investigatori dovranno raccogliere gli elementi necessari a dimostrare tale reato sulla base di quanto previsto dalla legge, ossia uso improprio o contraffazione di beni e marchi in possesso all’azienda mandante delle indagini o la diffusione di informazioni relative a dati acquisiti durante il lavoro che possano essere di natura riservata o informazioni ( spesso accade ) che son infondate e diffamatorie a danno di quest’ultima.

La prassi prevede inoltre la stesura di una relazione finale da consegnare al mandante delle indagini e che può essere utilizzato successivamente nell’ambito di un eventuale processo.

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