Come scoprire un uso illegittimo dei permessi per assistere un parente disabile
Il diritto del lavoro è una materia particolarmente complessa, in quanto vi sono numerose norme che regolano i vari aspetti del rapporto tra datore di lavoro e dipendente; per entrambe le parti sussistono oneri e doveri che devono essere rispettati affinché il rapporto stesso possa svilupparsi in maniera conciliante. Spesso, purtroppo, i dipendenti tendono ad abusare di alcuni dei privilegi concessi loro dalla legge, come ad esempio i permessi retribuiti, utilizzandoli per finalità diverse da quelle originariamente previste dalla normativa. Uno degli strumenti più abusati, in tal senso, sono i permessi per assistere i disabili (familiari o conviventi) previsti dalla Legge 104 del 1992: vediamo di seguito di cosa si tratta, quando si configura un utilizzo improprio degli stessi e come scoprire questo genere di violazione.
Permessi per assistere i disabili, cosa dice la legge
La Legge n. 104 del 1992 (“Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”) dispone una serie di agevolazioni assistenziali destinate alle persone portatrici di disabilità o affette da una patologia invalidante, “in relazione alla natura e alla consistenza della minorazione, alla capacità complessiva individuale residua e alla efficacia delle terapie riabilitative” (articolo 3, comma 2). Le finalità della normativa sono quelle di garantire l’integrazione sociale, scolastica e lavorativa anche alle persone disabili, attraverso una serie di agevolazioni che riguardano direttamente il soggetto portatore di handicap e, indirettamente, i familiari o i conviventi.
In particolare, la Legge 104 prevede permessi retribuiti per i lavoratori dipendenti che hanno un familiare portatore di handicap; come stabilisce il comma 3 dell’articolo 33 (“Agevolazioni”): “Successivamente al compimento del terzo anno di vita del bambino, la lavoratrice madre o, in alternativa, il lavoratore padre, anche adottivi, di minore con handicap in situazione di gravità, nonché colui che assiste una persona con handicap in situazione di gravità, parente o affine entro il terzo grado, convivente, hanno diritto a tre giorni di permesso mensile, fruibili anche in maniera continuativa a condizione che la persona con handicap in situazione di gravità non sia ricoverata a tempo pieno”. Inoltre, come stabilito dal comma 5 del medesimo articolo, il dipendente che assiste un parente o un familiare in situazione di gravità “ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede”.
In sostanza, la legge prevede un massimo di tre giorni di permessi retribuiti ogni mese; i giorni di permesso devono essere utilizzati per assistere un parente o un familiare, a meno che non sia ricoverato in ospedale stabilmente. Ogni altro utilizzo di questa agevolazione non è previsto dalla legge.
Cosa comporta l’uso improprio
Un uso improprio dei permessi ex Legge 104 espone il dipendente che ne abusa ad una serie di ripercussioni, che possono spaziare dalla semplice sanzione al provvedimento più severo, ossia il licenziamento. La giurisprudenza in materia è piuttosto nutrita e, in molti casi, la Corte di Cassazione chiamata a pronunciarsi in merito alla questione ha dichiarato legittimo il licenziamento del dipendente che usufruiva dei permessi per dedicarsi ad attività che non fossero assistenziali nei confronti del parente o familiare portatore di disabilità. Nello specifico, come si legge nell’ordinanza n. 23891 emessa dalla Corte di Cassazione il 2 ottobre 2018, “il comportamento del lavoratore subordinato che si avvalga del permesso di cui all’art. 33 L. 104 del 1992 non per l’assistenza familiare, bensì per attendere ad altra attività, integra l’ipotesi di abuso di diritto”; la Corte ha anche osservato che “tale condotta si palesa nei confronti del datore di lavoro come lesiva della buona fede, privandolo ingiustamente della prestazione lavorativa in violazione dell’affidamento riposto nel dipendente”. L’abuso si concretizza anche nei confronti dell’Ente previdenziale che eroga il contributo economico, in quanto la retribuzione risulta essere “un’indebita percezione dell’indennità ed uno sviamento dell’intervento assistenziale”.
Va però sottolineato come nel corso degli anni, il concesso utilizzo delle ore di permesso sia cambiato leggermente. In origine, l’assistenza doveva essere continuativa ed esclusiva mentre i successivi sviluppi di giurisprudenza hanno reso l’interpretazione della norma più elastica, per cui l’uso illegittimo dei permessi per assistere il disabile non si configura automaticamente se il dipendente si dedica anche ad altre attività. Di contro, si parla di abuso quando il permesso viene adoperato per svolgere attività strettamente personali, del tutto slegate dagli obblighi assistenziali nei confronti del familiare o convivente. In tal caso, infatti, come spiega Salvatore Piccinni – Managing Director Head of Southern Europe di Inside Intelligence & Security Investigations, il comportamento del dipendente non soltanto lede il rapporto fiduciario che deve esserci con il datore di lavoro ma implementa una percezione indebita dell’indennità prevista dalla legge che, a sua volta, rappresenta una condotta sociale disdicevole.
Come scoprire l’uso illegittimo
L’abuso dei permessi previsti dalla Legge 104, oltre ad esporre il dipendente alle ripercussioni sopra illustrate, può danneggiare le attività economiche dell’azienda presso la quale il dipendente è impiegato. Per questo motivo, e per tutelare i propri interessi, il datore di lavoro può disporre delle indagini di controllo al fine di comprovare eventuali abusi. In genere vi sono alcune circostanze che spingono il datore di lavoro ad indagare sulla condotta dei propri dipendenti, dal momento che i permessi ex Legge 104 sono spesso utilizzati come espediente per giustificare un comportamento assenteista. Il mandato di indagine viene conferito ad un’agenzia di investigazione privata, dal legale rappresentante dell’azienda; le parti individuano gli obiettivi da raggiungere per mezzo delle indagini e le fissano per contratto. Esaurita questa prima fase di natura burocratica, gli investigatori incaricati possono avviare le procedure di indagine.
Il primo step consiste nell’acquisizione di tutta la documentazione relativa al soggetto da sottoporre ad indagine: curriculum, contratto di lavoro, resoconto delle presenze, dei permessi e tutto quanto possa contribuire a delineare un profilo personale e professionale accurato. La fase successiva prevede la supervisione del target delle indagini; essa può essere attiva (pedinamento) o passiva (appostamento) e consente agli agenti di acquisire materiale fotografico e video, così da documentare in modo insindacabile la condotta del dipendente durante le ore di permesso, collocandolo in una determinata contingenza di tempo e luogo. In tal modo gli agenti possono verificare se il beneficiario del permesso ha un comportamento congruente con gli obblighi derivanti dall’erogazione dell’indennità, ossia se spende il proprio tempo per prestare assistenza ad un proprio familiare o convivente (o se svolge attività affini) oppure si dedica ad attività esclusivamente personali. Gli investigatori possono raccogliere prove di altro tipo, come ad esempio testimonianze e simili, per comprovare la condotta del dipendente; i riscontri ottenuti vengono illustrati in una relazione tecnica che viene consegnata al mandante delle indagini.